L'incostante

Parliamo un po’ di Guy Ritchie

Parliamo un po' di Guy Ritchie

Da qualche giorno è comparso sulla lista dei film consigliati da Prime Video The Gentlemen, pellicola che ha fatto la sua fugace comparsa nelle sale italiane a fine febbraio, subito prima che il coronavirus le facesse chiudere. Si tratta dell’ultimo film di Guy Ritchie, ovvero quel regista che lo spettatore distratto definisce di solito “quello che fa i film tipo Tarantino ma ambientati in Inghilterra”.

Il nostro Guy si porta dietro questa nomea da un bel po’: dal 1998, per l’esattezza, quando a soli trenta anni ha esordito con il divertente Lock & Stock, una storia di truffatori, gangster da quattro soldi, gente nata per strada con la battuta sempre pronta e il cinismo che sprizza da ogni poro. C’è molto di Tarantino, certo, è inevitabile pensare che un film così, senza Le Iene e Pulp Fiction, non avrebbe mai visto la luce. Ma c’è anche molto di più: il culto dello heist movie, il recupero della tradizione del film inglese di gangster (si legge su Wikipedia che John Ferguson, del Radio Times, ha definito Lock & Stock “il miglior film thriller britannico da Quel lungo venerdì santo”, un esempio al quale deve moltissimo), un gusto per l’inquadratura e per i dialoghi torrenziali quello sì, molto tarantiniano, e un notevole occhio per il casting. In Lock & Stock ha preso un ex calciatore gallese (Vinnie Jones) e un ex tuffatore suo amico (Jason Statham) e li ha resi stelle del cinema. Non era facilissimo.

Da Jason Statham a Madonna

Lock & Stock è costato un milione di sterline e ha reso almeno venti volte tanto, cosa che ha portato a un budget immediatamente maggiore per il film successivo. E i risultati si sono visti. Snatch – Lo Strappo (2000) affianca al feticcio Jason Statham due nomi di grosso peso come Benicio del Toro e Brad Pitt. E il risultato è evidente. Snatch è la summa del cinema di Guy Ritchie: personaggi che sono allo stesso tempo “larger than life” e “much smaller than life”, con nomignoli improbabili e back stories che sembrano leggende metropolitane, piani inutilmente complicati, minuscoli flashback, punti di vista che si intersecano, una storia costruita per addizione di centinaia di trame secondarie che vanno a formare un affresco frenetico. Cinema per il nuovo millennio. Applausi. Incassi giganteschi.

Il problema è che poi il nostro Guy (il nome può significare anche “tizio generico”, non è ironico?) è stato travolto dall’insolito destino del matrimonio con Madonna. Proprio la cantante, una che è tutto tranne una tizia generica. Secondo i maligni è stata proprio questa improbabile unione a far sbandare la carriera cinematografica del nostro amico Tizio, che nel 2002 ha dato alla luce l’incredibile (in senso negativo) remake del classico di Lina Wertmuller del 1974 Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare di agosto, con protagonisti gli ancor più incredibili (in senso ancor più negativo) Madonna e Adriano Giannini, figlio di Giancarlo. Guy Ritchie alle prese con una commedia che stravolge completamente la trama dell’originale, toglie tutti i significati politici e lascia solo la sequenza di situazioni più assurde che poteva trovare da un risultato a dir poco pessimo. La Wertmuller ha dichiarato a proposito “ho concesso i diritti per il remake a Madonna perché la stimavo molto. Ma probabilmente ho commesso un errore”. L’errore più grande l’ha commesso comunque Guy, che per colpa della cecità indotta dall’amore si è beccato un bel Razzie Award come peggior regista dell’anno. Meritato. 10 milioni di budget, meno di un milione di incassi.

La rimonta

A questo punto l’unica soluzione era tentare di tornare sui propri passi, ma anche qui, non è una cosa facile. È come ammettere di aver sbagliato tutto, di non essere ancora pronto, è come urlare ai fan “amatemi anche se ho dimostrato di non saper raccontare altro che le mie piccole storie di gangster inglesi!”. Luc Besson, che è un volpone, gli ha prodotto il confuso Revolver, con il quale si è un po’ rimesso in riga, poi nel 2008 sono arrivati il divorzio da Madonna (per “inconciliabili differenze”. Il nostro amico Tizio ci ha guadagnato una sessantina di milioni come buonuscita più un pub a Londra – ora venduto, ma ne ha aperto un altro a Gennaio, il Lore of the Land; se volete andare a trovarlo e bere una delle birre da lui prodotte l’indirizzo è 4 Conway Street, London, W1T 6BB) e soprattutto RocknRolla, finalmente un nuovo vero successo con un altro ritorno al cinema corale di gangster. Basta il cast (Gerard Butler, Tom Wilkinson, Thandie Newton, Mark Strong, Idris Elba, Tom Hardy, Gemma Arterton…) per capre che Ritchie era tornato al giro che conta, dopo quasi un decennio di purgatorio.

Se ne sono accorte anche le case produttrici, che hanno cominciato ad affidargli film di sicuro incasso. Prima la Warner Bros gli ha affidato il rilancio di Sherlock Holmes interpretato da Robert Downey Jr, forse un modo per la major di mettere le mani avanti e scusarsi di aver preso un americano per interpretare una delle icone inglesi per eccellenza. I puristi dell’opera di Conan Doyle hanno storto il naso, ma il pubblico ha risposto benone: due film, duecento milioni spesi, oltre un miliardo di incasso totale. Per Guy è arrivata anche una nomination al Saturn Award come miglior regista – non ha vinto, ma è stato uno dei primi riconoscimenti della sua carriera. Nel 2015 gli è stato affidato il rilancio di The Man from U.N.C.L.E., remake della classica serie inglese degli anni ’60, ma i risultati sono stati meno esaltanti. Peggio ancora è andato nel 2017 il suo King Arthur, che nelle intenzioni delle origini avrebbe dovuto essere una saga di sei film, ma visti i risultati mediocri al botteghino e l’etichetta di scult è già un piccolo miracolo che ne abbiamo visto uno. Un nuovo periodo nero? Non proprio, perché due anni dopo la Disney gli ha affidato l’Aladdin con Will Smith, per il quale ha ricevuto molte critiche ma che è stato anche il suo primo film a incassare più di un miliardo.

Se volessimo fare una analisi seria del cinema di Guy Ritchie ora potremmo parlare di come anche Aladdin in fondo sia un ladruncolo come quello dei film con i quali il regista è divenuto famoso, e che anche il suo King Arthur è un piccolo uomo che viene dal nulla e si trova a dover lottare contro un mondo più grande di lui, mentre l’Holmes e persino gli uomini della UNCLE siano le loro perfette nemesi, ma a noi questo non interessa poi molto. Ci piace guardare un film, magari criticarlo un po’, soprattutto divertirci.

E quindi arriviamo finalmente a The Gentlemen

Sì, perché dovremmo anche dire chi diavolo sono questi gentiluomini. Indovinate un po’? Sono gangster, criminali, piccola gente divenuta grande. È un ritorno alle origini, e per una volta sembra proprio che Ritchie si sia divertito un mondo a girarlo. C’è un boss americano della cannabis che sembra si sia ambientato benissimo in Inghilterra (Matthew McConaughey), c’è il suo fidato braccio destro (Charlie Hunnam, sulla buona strada per diventare un nuovo attore feticcio del regista), c’è uno strano dandy allenatore di boxe (Colin Farrell), c’è un giornalista fin troppo smaccatamente gay alla ricerca dello scoop (Hugh Grant), ci sono dei rapper acrobati stelle di youtube, dei cattivissimi mafiosi russi, un editore senza scrupoli, una “pupa del gangster” dura da far spavento, un enorme maiale, un attività criminale da cedere, mille trame che si incrociano, punti di vista, narratori inaffidabili e così via. Tutto l’armamentario Ritchieano, se mi passate l’aggettivo.

The Gentlemen è un film divertente, scorretto, torrenziale, pieno di umorismo e di frasi fighe. A volte un po’ forzate, perché il nostro Tizio è così, proprio non vuole arrendersi all’etichetta di uno qualunque. Lui vuole farsi notare, anche urlando se ce n’è bisogno, oppure sparando una sventagliata di mitra verso il cielo nel disperato tentativo di ottenere la vostra attenzione. E con The Gentlemen l’ha ottenuta. È andata bene, anche al botteghino, anche in un anno maledetto come questo. È andata bene malgrado il film sia un po’ vecchio… Ammettiamolo, il cinema non è più questo. Viene quasi da storcere il naso di fronte a un film in cui i cattivi sono in realtà dei buoni, ci sono decine di stereotipi razziali e sessuali (e per fortuna che per la maggior parte sono messi in bocca a Hugh Grant, che ha la credibilità per dirli vista la sua storia personale), il vero malvagio è la stampa… Ma Ritchie è così, prendere o lasciare. A me piace lasciare che si diverta piuttosto che vederlo al guinzaglio delle major per film troppo più grandi di lui, per progetti personali completamente sbagliati, per storie che non sono le sue storie. Mi piace il cinema degli autori, non quello delle major. E per questo (malgrado certi manierismi, malgrado un McConaughey svogliato, malgrado le battutacce e le inquadrature rubacchiate ad altri film) sono felice di aver visto finalmente un film come The Gentlemen, e sono ancora più felice di avere scoperto che il prossimo progetto del nostro Ritchie vedrà il ritorno come protagonista di Jason Statham. Si divertiranno, ne sono certo.

Michele Borgogni

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