Che stiate provando ad acquistare una Play Station, un’automobile, un iPhone o una scheda grafica per PC avrete avuto a che fare con il problema della mancanza di microchip a livello globale. Vediamo perché.
Ovviamente non esiste una risposta veloce perciò dovremo procedere per gradi: partiamo da Taiwan.
Taiwan
Il 70% delle fonderie e il 50% degli impianti di produzione mondiale di microchip sono situati a Taiwan. Le società presenti sull’isola sono anche titolari per il 18% dei progetti che riguardano i semiconduttori. Per fare un altro esempio, il 54% del mercato globale appartiene a tsmc (Taiwan Semiconductor Manufacturing Company) che ha tra i suoi partner Apple, Tesla, Intel, alcune delle maggiori case automobilistiche ed il colosso cinese Alibaba.
Negli anni 70 un terzo della produzione mondiale di semiconduttori veniva dalla Silicon Valley, in California. Oggi i principali competitor di Taiwan sono la Corea del Sud con Samsung Electronics e la Cina con la SMIC (Semiconductor Manufacturing International Corporation).
Come siamo arrivati alla scarsità di microchip?
Il primo fattore è che, in parole semplici, abbiamo sbagliato i calcoli. Sono state fatte delle stime errate sui volumi di vendita di alcuni beni come auto o smartphone durante la pandemia. Infatti proprio durante la pandemia e di conseguenza durante il lockdown, la domanda di oggetti come PC, tablet, smartphone, tv, ecc. è cresciuta tantissimo per via dello smart-working per i lavoratori e della DAD per gli studenti. Ma non solo, abbiamo cucinato di tutto e abbiamo acquistato più elettrodomestici e accessori da cucina. Abbiamo dovuto reinventare le nostre serate chiusi in casa ed abbiamo acquistato nuove tv per vedere Netflix, nuovi PC per stremmare su Twitch, console e videogiochi. Questo improvviso aumento della domanda ha messo in crisi interi settori produttivi, che si sono ritrovati spiazzati rispetto alla normale programmazione della produzione.
Un altro fattore, sempre legato alla pandemia, è il rallentamento degli spostamenti di merci e persone ed il rallentamento delle stesse unità produttive per favorire tutte le misure di contrasto al coronavirus.
Non solo. Ha inciso anche il fatto che le aziende produttrici di beni, soprattutto nel settore automobilistico, non avevano grandi scorte di componenti in casa. Avere grosse scorte a magazzino infatti porta anche a maggiori spese e costi di gestione, perciò si preferisce avere un ricambio costante dei materiali a magazzino, potendo puntare su una supply chain rapida ed efficiente. Ma, come abbiamo visto, non in tempi di pandemia.
Come se non bastasse tutto questo, si sono messi di mezzo anche il clima ed i problemi alle infrastrutture elettriche. L’acqua è un elemento fondamentale per la fabbricazione dei semiconduttori, utilizzata per il lavaggio delle piastrine. Taiwan ha subito il peggiore momento di siccità degli ultimi decenni e questo ha influito rallentando la produzione. Se poi ci mettiamo anche il grosso incendio a ottobre 2020 ed un terremoto a inizio 2021 in Giappone, che hanno comportato problemi ed il blocco della produzione per alcuni dei principali stabilimenti giapponesi dove venivano prodotti microchip, il quadro è completo. Anzi no. Ci stavamo dimenticando delle due grandi fabbriche in Texas bloccate per alcune settimane per via di un enorme blackout dovuto ad un’insolita tempesta di neve.
Huawei e Trump
Anche le sanzioni imposte dall’ex presidente degli Stati Uniti d’America Donald Trump alla società cinese Huawei hanno influito ad aumentare la carenza di circuiti elettronici. Trump aveva impedito a questa di acquistare componenti con tecnologia americana al loro interno, presente di fatto in quasi tutti i microchip. Così, per non rischiare di restare senza, Huawei ha iniziato ad accaparrare quanti più microchip possibili prima che scattassero le sanzioni, riducendo le scorte dei produttori.
Settore automobilistico
Il settore che per primo ha subito perdite e ritardi nella produzione per via della carenza di semiconduttori è quello delle automobili. I chip presenti sulle auto sono meno sofisticati e meno costosi di quelli presenti su smartphone, console e PC. In un’auto ce ne sono decine e servono a controllare sensori di parcheggio, finestrini elettrici, computer di bordo, airbag, il sistema di intrattenimento, ecc.
Va inoltre considerato che le società di automobili sono disposte a pagare meno per i componenti, per via dei margini di guadagno non elevati sulla vendita degli automezzi. Queste poi lavorano con pochissimo inventario nei propri magazzini, ordinando i componenti delle auto in base alla richiesta del mercato, per motivi di efficienza e controllo dei costi di produzione. Tutte queste cause hanno sempre impedito al settore di poter “fare la voce grossa” verso le società che producono i componenti elettronici.
Infatti, quando le società che producono microchip si sono viste aumentare le richieste dalle aziende che producono smartphone, PC, console, elettrodomestici e automobili hanno dato meno priorità a quest’ultimo settore. Questo perché l’intero settore delle auto conta solo il 10% della richiesta globale rispetto agli altri beni elettronici.
Molte case automobilistiche, trovandosi in difficoltà, hanno dovuto sospendere la produzione delle auto per settimane o addirittura mesi, chiudendo alcuni importanti stabilimenti.
L’aumento della capacità produttiva e l’European Chips Act
Società come TSMC hanno promesso di aumentare la loro capacità produttiva per far fronte all’aumento della richiesta e all’emergenza dovuta alla scarsità dei componenti. Anche i governi di Cina e Corea del Sud si sono mossi per aumentare gli investimenti nel settore. La Corea del Sud con 450 miliardi di dollari in dieci anni tramite privati e la Cina con 150 miliardi, grazie ad un piano decennale partito nel 2015.
Contemporaneamente alcuni Stati, soprattutto occidentali, stanno mettendo in pratica politiche per diminuire la dipendenza dal mercato asiatico. Lo scopo è la creazione di impianti sul proprio territorio, tra cui l’Italia.
La Commissione Europea sta discutendo l’European Chips Act con lo scopo di rafforzare la produzione europea di microchip, diventata ormai una priorità industriale in moltissimi Paesi del mondo. Il piano europeo prevede 43 miliardi di euro di investimenti con fondi pubblici e privati, la costituzione di un fondo per gli investimenti e la deregolamentazione sugli aiuti di Stato da parte degli Stati membri.
L’ambizioso piano punta ad arrivare al 2030 con una quota del 20% della produzione mondiale di microchip, contro il 9% attuale. Questo aiuterebbe anche il settore automobilistico europeo, dove la produzione in alcuni Paesi è diminuita di un terzo.
La quota europea però rischia di non essere all’altezza dello scopo, di fatto inferiore rispetto a quanto stanziato da altre potenze economiche. Facendo un raffronto con gli USA, questi hanno messo sul tavolo 52 miliardi di dollari (cioè 45 miliardi di euro) di aiuti federali più altri miliardi che metteranno i singoli Stati con i propri piani. Dei 43 miliardi di euro europei però solo 11 sono investimenti diretti al settore: metà tramite fondi europei e l’altra metà tramite stanziamenti dei singoli Stati membri.
Gli investimenti di Intel in Europa
Grazie anche agli sforzi di Thierry Breton, commissario europeo per il Mercato interno, il colosso americano Intel ha deciso di investire in Europa con 80 miliardi di euro. Questi serviranno a creare centri produttivi e di ricerca e sviluppo in varie nazioni europee. La quota più grossa, 17 miliardi, servirà a far nascere due mega fabbriche all’avanguardia in Germania, a Magdeburgo. 12 andranno in Irlanda, per ampliare la fabbrica di Leixlip. Alla Francia sarà destinato un grande centro di R&D, design e produzione. Tra gli altri Paesi anche Italia, Polonia e Spagna.
All’Italia dovrebbero spettare 4,5 miliardi di euro per una nuova fabbrica che creerebbe 1.500 posti di lavoro più circa 3.500 di indotto tra partner e fornitori. Il progetto dovrebbe partire dopo il 2025.
Quello dei microchip e dell’elettronica in generale è un mercato in costante crescita e gli investimenti, se confermati, serviranno a sviluppare nuovo know-how e nuovi posti di lavoro.
Fonti: Il Post, Geopop, Forbes